Durante la chiusura della scuola, la maestra Antonella regala ogni giorno agli alunni un’opera d’arte!
Cari bambini, vi invito a scoprire con me queste bellissime opere d’arte… giorno per giorno ammirate il quadro, leggete le spiegazioni, così potete scoprire che un’opera d’arte può racchiudere una grande storia e rendere più bella la nostra giornata!
LA MAESTRA ANTONELLA
“Ufo Robot, Ufo Robot
Ufo Robot, Ufo Robot.
Si trasforma in un razzo missile
con circuiti di mille valvole
tra le stelle sprinta e va”.
No bambini, la scultura di cui vi parlerò oggi non è un robot, bensì un uomo. Ma come un uomo?
Questa scultura in bronzo ha una forma così particolare che l’uomo sembra quasi indossare un’armatura, e sembra un robot. In realtà Umberto Boccioni ha studiato un modo per rendere al meglio una figura umana in movimento.
Umberto Boccioni, esponente del Futurismo, amico di Giacomo Balla (vi ricordate l’artista che ha dipinto La bambina che corre sul balcone, o Morbidezze di primavera?!) è molto attento allo studio del movimento e alla sua resa. L’uomo che sta camminando, quindi, non indossa un’armatura ma viene ritratto nell’atto di compiere un movimento; muovendosi, l’uomo modifica la propria posizione e deforma la propria sagoma così come modifica anche lo spazio che lo circonda. La scultura non raffigura solo il corpo di un uomo che cammina, ma anche i cambiamenti che il movimento causa all’ambiente circostante. Anche se non ce ne rendiamo conto, quando corriamo spostiamo l’aria che ci circonda.
La caratteristica principale di questa straordinaria opera in bronzo, quindi, è il tentativo di rendere un corpo umano in movimento. A ben pensarci, questa non è una novità introdotta per la prima volta dal Futurismo, anche artisti meno recenti di Boccioni avevano, infatti, affrontato questo tema. La rappresentazione del movimento è da sempre un obiettivo degli scultori ma con l’avvento della società moderna, con i cambiamenti sociali dovuti ad esempio all’introduzione dell’elettricità e delle automobili, delle fabbriche nelle periferie delle nostre città e il diffondersi degli aerei nei nostri cieli, rappresentare il movimento non sembra bastare più e i futuristi studiano modi per rendere in pittura e scultura «la bellezza della velocità».
Vi faccio un indovinello: sapete su quale moneta è rappresentata questa scultura? Andate a cercarla!
#museodel900
Oggi vorrei portarvi al Castello Sforzesco e precisamente in una delle mie stanze preferite, per parlare di piante, soprannomi e Rinascimento.
Cosa c’entrano queste tre cose? Entriamo nella Sala delle Asse al Castello Sforzesco per scoprirlo. Un luogo dove amo andare: mi sembra di passeggiare in mezzo alla natura, di fare un bel pic-nic e correre a piedi nudi nell’erba, di sdraiarmi a guardare il cielo tra le foglie degli alberi, pur essendo chiusa in una sala del castello. Perché?
Perché Leonardo dipinse la volta di questa grande sala come fosse un pergolato di foglie.
La dipinse a partire dal 1498, con l’intento di celebrare il duca Ludovico Sforza, conosciuto come il Moro.
È qui che Leonardo da Vinci, su incarico di Ludovico Sforza, realizzò questa magnifica illusione, parte di un programma per accattivarsi le simpatie e far accettare il potere del duca, partendo dalla promozione della sua immagine.
Illusione, dicevamo, ebbene sì perché Leonardo rende la profondità con la tecnica della prospettiva, già usata nel Refettorio delle Grazie. Vi ricordate cosa dipinse lì? L’Ultima Cena!
Nella Sala delle Asse, l’illusione ha un fortissimo legame con la natura e riesce nell’intento di trasportarci in una dimensione quasi magica, regalandoci la sensazione di trovarci sotto un fresco pergolato verde di piante di gelso, pur restando al chiuso di una fortezza. Leonardo dipinse un pergolato di piante di gelso– i “moroni”, così venivano chiamati nel dialetto locale; l’enorme volta è ricoperta con fronde e frutti di gelso impreziositi da un’unica corda dorata dai tipici intrecci leonardeschi.
La scelta non fu casuale. C’era da celebrare un duca, ricordate? Ludovico aveva necessità di legittimare la sua posizione, indebolita dalla morte della moglie Beatrice e dai diritti rivendicati dai francesi, che di lì a poco avrebbero costretto il duca alla fuga. Ludovico Sforza, figlio di Francesco, era noto ai milanesi con un sopranome con cui veniva acclamato dalla folla al suo passaggio: “Moro! Moro!”. Il soprannome gli fu attribuito proprio da sua madre, Bianca Maria Visconti che lo chiamò così per la sua carnagione scura: “Ludovicusmaurusfiliusquartusmasculus”. Fu così che nel 1461, con l’annuncio della sua nascita, Ludovico Sforza divenne Ludovico il Moro, e questo nome divenne la sua insegna.
Parliamo ora del morone, frutto della pianta del gelso, la cui coltura era stata incrementata da decenni nei dintorni di una Milano nota per la produzione di velluti e broccati di qualità eccelsa, la cui seta veniva prodotta in gran quantità grazie alle foglie di gelso, nutrimento dei bachi. Il gelso era tanto forte e resistente da sopravvivere alle gelate invernali, è un albero le cui radici sarebbero in grado di crescere fra le rocce più dure. Proprio le sue fronde e i suoi frutti furono dipinti da Leonardo sull’intera volta della sala e le radici sono state rappresentate nei disegni a monocromo a sottolineare ulteriormente la forza del duca.
Risalgono al 1497 i primi progetti per la decorazione del soffitto della vasta sala del Castello Sforzesco, una sala già all’epoca chiamata “delle asse” per i rivestimenti lignei che coprivano le pareti garantendo l’isolamento termico, e i cui lati, pensate, superano i quindici metri di larghezza. I lavori iniziarono soltanto nella primavera del 1498 e appena un anno dopo il duca fu costretto alla fuga dai francesi con il conseguente e definitivo abbandono del programma decorativo.
Questa sala fu intonacata quasi completamente a pochi anni dalla sua esecuzione coprendo la pittura di Leonardo che venne riportata alla luce a fine Ottocento, e dopo diversi interventi di restauro – ebbene sì, anche di vere e proprie ridipinture – la recente e fortunata campagna di restauri, tutt’ora in corso, ha riportato alla luce incredibili schizzi di mano leonardesca, rimasti nascosti per secoli sotto gli strati di intonaco che rivestivano le pareti.
Insomma non vedo l’ora di portarvi a visitare una delle mie stanze preferite del castello Sforzesco.
Nel frattempo, provate anche voi ad imitare Leonardo e disegnate un bel pergolato di foglie e fiori, da cui si intravede il cielo, come se foste sdraiati all’ombra di quel pergolato a sbirciare il cielo. #Castello Sforzesco, Milano
Oggi andiamo in un luogo dove racconteremo di spazio e di attesa. Andiamo Museo del Novecento, nella sezione dedicata a Lucio Fontana. Sì, lui, “quello che taglia le tele”. Un artista che amo raccontare, soprattutto ai più grandi che di fronte ad un taglio nella tela spesso restano un po’ perplessi e si chiedono se è arte, amo raccontarlo per convincere anche i più scettici ad amarlo profondamente. E accade davvero, a tutte le età. Unica condizione: guardare la sua arte senza preconcetti. Le sue tele sono come delle finestre e quando sei di fronte ad una finestra non ti viene voglia di chiuderla, ma di spalancarla e guardare oltre.
Sediamoci qui, allora, di fronte a questo unico taglio obliquo realizzato su una tela neutra nel 1960, come faremmo davanti ad una finestra. Questa tela è parte di una lunga serie di opere dipinte con un solo colore (monocrome) chiamate “Concetti spaziali”. Davanti a queste opere lo sguardo va “oltre” la superficie, grazie ai famosi tagli. Verrebbe voglia di prendere i due lembi della tela ed aprirli, Fontana desiderava proprio spingerci a guardare oltre quel taglio. Solo con il desiderio di aprire quella finestra si può andare oltre la superficie, scoprire sia la bellezza che ci circonda, sia quella presente in noi stessi, vivendo da protagonisti. Lucio Fontana trasforma la tela in uno spazio, il taglio è un varco verso un nuovo spazio oltre a quello che ci circonda, questo nuovo spazio è il vero protagonista della sua ricerca.
Vi sorprenderete infatti nel cogliere il vostro sguardo intento ad indagare quello spazio nero che pare disegnato sulla superficie: i tagli di Fontana sono calamite capaci di catturare chi li osserva in una dimensione che va “oltre”.
Quando lui inizia a fare queste opere manca meno di un decennio al 1969, l’anno dei primi passi dell’uomo sulla luna. Con i primi viaggi nello spazio l’umanità intera iniziò a sentirsi parte di qualcosa di immensamente grande. Le opere di Fontana anticipano tutto questo, riuscendo – parole sue – a “dare a chi guarda il quadro un’impressione di calma spaziale, di rigore cosmico, di serenità nell’infinito”.
Andremo a vivere questa meravigliosa esperienza davanti alle sue opere, per il momento vi lascio un piccolo assaggio per regalarvi uno sguardo diverso su queste strane giornate sospese.
Nell’attesa, spalanchiamo le nostre finestre e andiamo oltre in uno spazio che desideriamo ritrovare presto in compagnia dei nostri amici.
Ora dopo aver conosciuto Lucio Fontana, provate anche voi: dipingete un vecchio telo e poi con l’aiuto di mamma o papà e un taglierino fateci un bel taglio centrale, e dietro al primo telo potrete mettere un altro disegno in cui rappresenterete lo spazio che desiderate vedere.
Aspetto i vostri capolavori!
#museodel900
AUTORITRATTO IN UN GRUPPO DI AMICI, Francesco Hayez, 1827
Oggi vorrei parlarvi di amicizia, perché so che gli amici mancano e non vediamo l’ora di poterli riabbracciare. Vi racconto allora di un piccolo capolavoro nascosto.
È un dipinto di piccole dimensioni – il lato più lungo misura soltanto poco più di trenta centimetri – esposto al Museo Poldi Pezzoli. Quando si entra nella stanza dove è conservato e lo si vede, per lo più quasi per sbaglio, perché è piccino e in una sala piena di meravigliosi vetri di Murano, sembra quasi di interrompere una conversazione tra gentiluomini. Si tratta di un insolito autoritratto realizzato da Francesco Hayez in cui si rappresenta assieme ai suoi più cari amici: lo scenografo Giovanni Migliara, il pittore Pelagio Palagi, il ritrattista Giuseppe Molteni – che dal punto di vista artistico era il suo più grande rivale – e infine il letterato Tommaso Grossi. Un dipinto non finito, lo si capisce dai tratti a matita ancora evidenti sulla tela, certamente realizzato per diletto. Siamo nel 1827, in quel periodo intellettuali ed artisti erano soliti condividere oltre ad una forte amicizia, anche idee e progetti comuni, un po’ come succede a voi quando siete parte della stessa classe o della stessa squadra. Proprio durante i loro incontri nascono le più interessanti fusioni di idee tra movimenti artistici e correnti letterarie. Lo stesso Tommaso, pensate, per celebrare l’amicizia con Francesco a termine di una lunga malattia del pittore scrisse un componimento chiamato “Il Brindisi” in cui lo descriva così: “Propri quell che se dis on bon fioeu, e l’è giust se tutt ghe veuren ben”.
Oggi vorrei proprio celebrare la bellezza dell’amicizia, con l’augurio che affetto, idee e risate non finiscano mai di circolare, nell’attesa di potersi di nuovo salutare con un abbraccio vero.
Golosoni…avete già mangiato tutte le uova di Pasqua? Sicuramente sì, allora ho pensato di portarvi un altro uovo, ebbene sì oggi vi voglio parlare di un insolito uovo: un uovo di struzzo. E sapete dove potete trovarne uno? Alla Pinacoteca di Brera!
E cosa ci fa un uovo in Pinacoteca?
E’ un particolare importantissimo di uno dei capolavori esposti a Brera.
Esiste una sala nel museo con solo tre opere esposte – i cosiddetti capolavori della Pinacoteca- e in cui tutto sembra fermarsi. Tre dipinti in cui domina il silenzio. Il silenzio dell’istante più prezioso del matrimonio raccontato da Raffaello. Il silenzio del Cristo alla colonna di Bramante. E poi Piero della Francesca con la sua Pala Montefeltro.
Chi sono i personaggi di questo dipinto?
Al centro dell’opera c’è la Vergine in trono con le mani giunte, sulle sue gambe dorme il piccolo Gesù. Intorno alla coppia divina, angeli e santi si dispongono in semicerchio.
Partendo da sinistra, riconosciamo dalla barba incolta Giovanni il Battista, riferimento alla duchessa che morì proprio in quell’anno; poi San Bernardino da Siena, amico di Federico, e San Girolamo, l’eremita erudito protettore degli umanisti, che si batte il petto con un sasso. Dall’altro lato del quadro, Francesco d’Assisi mostra le stimmate, mentre San Giovanni Evangelista regge il libro e San Pietro da Verona espone la ferita che gli fu inferta sul cranio durante le sue lotte contro l’eresia.
Alle spalle di Maria quattro angeli si fanno notare per la luce emanata da magnifici gioielli.
In primo piano inginocchiato c’è il duca Federico da Montefeltro, raffigurato con l’armatura proprio a sottolineare le sue doti di grande condottiero.
E poi c’è un dettaglio di quest’opera che non si può dimenticare, e di cui parleremo oggi: l’uovo di struzzo.
L’uovo se ne sta appeso alla conchiglia della volta, esattamente sopra il delicato volto di Maria, che ne replica simbolicamente la forma. Perché? Sin dall’antichità l’uovo era simbolo della vita e Maria con il suo sì diede la vita a Gesù. Poi l’uovo diventò simbolo Pasquale della Resurrezione. Nel dipinto di Piero l’uovo è inserito in una composizione geometricamente perfetta, nel rispetto di quell’ordine geometrico tipico di Piero, non a caso autore di un importante trattato sulla prospettiva e la geometria.
Ora però chiedo a voi di scoprire perché l’uovo è diventato il simbolo della Pasqua?
E di scoprire perché Federico da Montefeltro aveva quello strano naso?
E poi vi sfido a disegnare un uovo e decorarlo liberamente per sottolineare tutta la sua bellissima e perfetta forma! Siccome se vi chiedessi di mandarmi le vostre uova di cioccolato sono certa rimarrei a bocca asciutta… allora aspetto i vostri disegni!!!
Mi raccomando tenete il foglio in verticale, piegatelo a metà così che quando disegnerete il vostro uovo sia simmetrico, cioè uguale sia a destra che a sinistra
Aspetto i vostri lavori: antonella.visentini@rezzarascuole.com
#Pinacoteca di Brera
Avrete sentito al telegiornale o in TV che da pochi giorni sono iniziate le celebrazioni dedicate ad un grande artista: Raffaello, esattamente a 500 anni dalla sua morte.
Anche a Milano abbiamo l’onore di avere una sua opera: in Pinacoteca Ambrosiana, c’è una sala interamente dedicata al grande cartone preparatorio per la Scuola di Atene, restituito al pubblico nel 2019 dopo quattro anni di restauro dei 210 fogli di carta – avete capito bene – di cui è composta l’opera.
Realizzato da Raffaello fra il 1509 e il 1511 come disegno preparatorio per la Scuola di Atene destinata a decorare una sala degli appartamenti di papa Giulio II, ora Stanza della Segnatura in Vaticano, il cartone è unico del suo genere… sapete quanto è grande? Otto metri per tre.
Una volta approvato dal papa, il “ben finito cartone” venne utilizzato per realizzarne un secondo, a sua volta usato per la realizzazione effettiva degli affreschi. Quando si va alla Pinacoteca Ambrosiana ad ammirare quest’opera viene un po’ da sorridere, perché i custodi sono preoccupati per l’incolumità dei visitatori, che così attratti dalla possibilità di vedere da vicino il tratto disegnato di Raffaello e i piccoli fori ben visibili a occhio nudo si avvicinano al grande vetro che protegge l’opera e rischiano di sbatterci il naso!
Grazie all’allestimento si può davvero ammirare la tecnica. Piccoli fori, dicevamo: è questa la particolarità dei cartoni rinascimentali, usati dagli artisti durante il “riporto” di un disegno preparatorio su una grande superficie da affrescare. Il cartone, sui cui esistevano anche i più piccoli dettagli e le ombreggiature, veniva forato lungo tutte le parti disegnate e appoggiato sulla superficie da dipingere, procedendo con lo spolvero con un tampone di polvere di carbone che passava attraverso i piccoli fori.
#Pinacoteca Ambrosiana
L’amico artista che vi presento oggi è Sandro Botticelli, il pittore della Primavera. Sandro dipinse questo Compianto quando era anziano e si concentrò in modo particolare sull’espressione addolorata dei volti della madre e degli amici di Gesù e sui loro gesti quando Gesù è stato deposto dalla croce. A fare da sfondo alla scena c’è il sepolcro. Gesù è in primo piano: il suo corpo è adagiato sul grembo di sua madre e intorno a loro e vicinissime, quasi a creare un unico sostegno, vi sono le altre figure che lo circondano. Maria, al centro della composizione, a causa del forte dolore, sviene, mentre viene sorretta da Giovanni, che con la mano sinistra le accarezza dolcemente le tempie e con la destra le sorregge il braccio, come a volerla consolare. Come sono stati vicini sotto la Croce, così ora sono uniti nel dolore. Le Marie sono vicine al corpo di Cristo: una di loro sta reggendo il volto di Gesù, cercando di appoggiarvi un sudario, un’altra, disperata piange e si copre gli occhi per non vedere tale scena. Maria Maddalena, invece, abbraccia con grande tenerezza i piedi di Cristo. La Maddalena in quell’abbraccio si affida a Gesù, si abbandona a lui. Il suo volto è sereno, lei è certa della sua presenza. È l’unico volto tranquillo in questo Compianto. Attraverso di lei noi capiamo che Gesù non ci ha lasciato, che si può sperare affidandoci. Tutti questi protagonisti formano una composizione piramidale, alla cui punta si trova Giuseppe d’Arimatea, il quale, ha tra le mani la corona di spine che fino a poco prima era sulla testa di Gesù ed i chiodi con cui Cristo era stato inchiodato alla croce. Mostra quegli oggetti come a riportare l’attenzione a ciò che Gesù ha subito per noi; tenendo questi oggetti, volge lo sguardo verso il cielo, incredulo per la morte del figlio di Dio e quasi a chiedere spiegazione a Dio.
Milano, Museo Poldi Pezzoli
PIETA’ RONDANINI, Michelangelo Buonarroti
Questo venerdì di Quaresima vorrei parlarvi di Michelangelo, sì il grande artista che lavorò per il Papa a Roma e dipinse la Cappella Sistina. Oltre ad essere un magistrale pittore, fu anche scultore e tra le sue celebri opere scultoree ci sono due Pietà. La prima, detta Pietà di San Pietro, la scolpì all’età di 24 anni: è custodita proprio nella Basilica di San Pietro a Roma ed è considerata il capolavoro di Michelangelo.
L’ultima Pietà che Michelangelo fece, invece, è conservata a Milano, al Castello Sforzesco, ed è molto differente.
Michelangelo iniziò a lavorarci ormai ottantenne e ci lavorò fino a pochi giorni prima di morire, in effetti quest’opera non è finita… cosa manca secondo te?
La Pietà di Milano, detta Rondanini, è testamento e meditazione del vecchio artista sulla morte e la salvezza dell’anima. In quest’opera lo scultore rinuncia alla perfezione del corpo e alla sua eroica bellezza e si concentra maggiormente sulla sofferenza di Gesù e di Maria, proprio a farci riflettere sul sacrificio che Gesù ha fatto per noi.
Partiamo ad osservarla dal basso: dalle gambe di Gesù, la parte “conclusa” dell’opera. Osservate la meraviglia di quelle ginocchia, di quelle rotule scolpite senza una sbavatura. Guardate come la gamba cade, addormentata, con i muscoli rilasciati. La parte interna della coscia, in particolare, è asciutta, affusolata, perfetta.
Michelangelo mette in scena la bellezza dell’uomo: in questo momento emerge tutta l’umanità di Gesù.
Ora alziamo lo sguardo, provate ad immaginare come avrebbe potuto essere quella scultura se fosse stata continuata tutta così: Michelangelo, ragazzi, è uno che ci sapeva fare! E allora perché la fece così?
Le cose potrebbero essere andate così: Michelangelo ad un certo punto, mentre vecchissimo lavorava a questa scultura aveva capito con chiarezza l’idea che l’aveva generata e a cui doveva “obbedire”.
E qual era questa idea? Che quando un figlio muore, la sua mamma non può essere una spettatrice. È una a cui muore qualcosa dentro.
Quindi bisognava annullare distanze, fare dei due personaggi quasi un personaggio unico. Allora come renderla in scultura? Rendendo potente quel senso di fusione tra le due figure, quasi calamitate una dentro l’altra. Osservate il particolare della mano della mamma che sembra infilarsi nel corpo del figlio. Guardate il mento che s’appoggia con delicatezza sulla testa di Gesù.
Impossibile descrivere quell’idea, quell’essere tutt’uno tra madre e figlio, ecco allora che Michelangelo sceglie di far restare nell’indistinto i due corpi, non levigandoli, di farli restare inafferrabili nel loro mistero. Per questo il non finito di Michelangelo è un passo concettualmente oltre il suo finito.
La scultura, osservabile da qualsiasi angolazione, permette di apprezzare molti dettagli: in particolare, guardando questo lavoro di lato, c’è una sorta di slancio verso l’alto di tutta la composizione, che simboleggia l’attuale morte e prossima resurrezione di Gesù.
L’autore di questo dipinto si chiama Ambrogio, un pittore senese autore di alcuni dei più meravigliosi dipinti del Trecento.
La Pinacoteca di Brera ospita questa piccola tavola, nella quale iniziamo a scorgere una dolcissima relazione fra Maria e Gesù. La tavola di Ambrogio è già moderna, come testimonia il Bambino, stretto nelle fasce come una mummia, ma che si divincola con una certa naturalezza e guarda la sua mamma che ricambia con un amorevole sguardo.
Avete visto i piedini che spuntano dalle fasce? La manina che si muove e la dolcezza della mano di Maria che abbassa le fasce in cui è avvolto Gesù? Tutti questi gesti sono estremamente moderni per l’epoca. Infatti, prima di quest’opera la Madonna e Gesù erano rappresentati in modo molto statico e senza sguardi o iterazioni tra loro.
Vi racconto di questa piccola e preziosa tavola per due motivi: uno perché vorrei affidare a Maria e al suo dolce sguardo, i nostri giorni, a volte un po’ noiosi e lunghi senza vederci e il secondo motivo è per il rosso.
Il rosso è un colore forte e deciso, spesso collegato ad emozioni altrettanto forti come la rabbia e l’energia che abbiamo dentro e spesso abbiamo bisogno di tirar fuori con una bella corsa, un bel canto, un bel lavoro,…
L’altro giorno vi ho scritto delle ricette segrete delle botteghe degli artisti. Ammirando le tavole dipinte tardo medievali con fondi oro, capita spesso di scorgere un fondo rosso-arancione usato come base per questi preziosissimi sfondi. Si chiama “bolo” ed è una preparazione a base di argilla usata per conferire alla sottilissima foglia d’oro, che viene usata come sfondo, una maggiore intensità.
Ne vedete ora qualche traccia attorno alla testa dei due protagonisti della tavola di Lorenzetti?
Nell’attesa di tornare a rivederci presto, il mio augurio di oggi è di cercare di trovare energia da questo “rosso”.
Senza di lui, infatti, non avremmo sentito il calore che trasmettono le bellissime tavole realizzate in questo periodo.
#pinacotecabrera
Oggi pensavo a quanto è bello guardare e usare i colori e poter “pasticciare” un po’!
Ebbene sì, in questa sosta si può cogliere tanta bellezza, rallentare i ritmi, godersi lo stare insieme in famiglia senza essere presi dalla frenesia e approfittarne per inventare nuove ricette, fare dolci, leggere finalmente quel libro lasciato sul comodino e soprattutto fare delle piccole grandi opere d’arte.
Allora a proposito di nuove ricette volevo mostrarvi gli ingredienti degli artisti come Leonardo Da Vinci e molti altri artisti prima e dopo di lui.
Nell’allestimento della nuova Galleria Leonardo al Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano è presente una piccola vetrina: ci sono conchiglie, uova, pigmenti colorati, gusci di noce e altri piccoli oggetti.
Ma a cosa servivano tutte queste cose e soprattutto cosa c’entrano con gli artisti?
Dovete sapere che ogni bottega d’artista aveva delle ricette segrete che venivano custodite gelosamente, e che oggi conosciamo grazie al Libro dell’Arte di Cennino Cennini, pittore attivo nel XIV secolo. Non ricette per far dolci, bensì per fare i colori!
Sin dal mondo greco-romano, infatti, le tecniche pittoriche più diffuse erano l’affresco e la pittura a tempera. E non c’era il cartolaio che vendeva i colori. Allora come era possibile ottenere i colori necessari alla realizzazione di un’opera?
Dalla natura!
Il bianco si otteneva dalle argille o dal piombo, il nero era ricavato dal carbone oppure dalle ossa e dall’avorio, per il rosso veniva utilizzata la rubrica, una terra rossa. I verdi più usati erano ricavati dalla malachite e dal verderame. Per quanto riguarda il blu si ricorreva all’utilizzo dei lapislazzuli, molto costosi, o dell’azzurrite.
I giovani apprendisti in bottega imparavano a fare i colori, sminuzzando e riducendo in polvere tutte queste materie prime, da cui ricavavano il pigmento di colore che poi doveva essere mescolato con dei collanti, come ad esempio l’uovo.
Quando torneremo a visitare i nostri musei e ad ammirare un dipinto o un affresco, ricordiamoci di questo piccolo tesoro: nello scorgere un’opera in controluce e cercando di andare “oltre” la superficie dipinta c’è un mondo tutto da scoprire.
Provate anche voi! Come fare? Mescolate il solo rosso d’uovo con i colori, ad esempio: dello zafferano, della paprika, del cacao o della terra ben setacciata e resa polvere.
Oppure colora con frutta, fiori e spezie.
ROSSO: succo di pomodoro privato dei semi o fragole.
ROSA: succo di rapa o cavolo rosso che va schiacciato nel mortaio. Si può aggiungere al succo, qualche goccia di limone per ottenere il fucsia o del bicarbonato che è basico per virare al blu intenso.
GIALLO: zafferano in polvere.
ARANCIONE: curcuma o curry sono perfetti.
VERDE: l’acqua degli spinaci o delle bietole, ma anche tè verde, cavolo verde, prezzemolo, alghe e menta.
BLU: mirtilli schiacciati o more, ciliegie per il VIOLA.
MARRONE: polvere di caffè, di cioccolato oppure di orzo.
Ecco fatto dei meravigliosi colori con cui dipingere!
#museoscienzamilano
#labellezzasalveràilmondo
PIETA’ (dopo Delacroix), Vincent Van Gogh, 1889
Oggi venerdì di Quaresima vorrei raccontarvi di Vincent Van Gogh.
Per lui la pittura è lavoro e missione, tanto è vero che dedica i suoi primi dipinti agli umili lavoratori, come i contadini, tessitori, cosciente del valore del lavoro. Poi, dopo aver conosciuto gli impressionisti, si dedicherà alla bellezza del creato: paesaggi, fiori e ritratti.
Non fece molti dipinti raffiguranti Sacre rappresentazioni e quei pochi che fece non li inventò, ma scelse di copiare dei celebri capolavori, interpretandoli con il suo gusto e il suo modo di dipingere, trasformandoli con la sua piena immedesimazione nelle scene dipinte.
Per Vincent i maestri erano fondamentali, esempi da guardare e seguire. Nella lunga lista dei suoi artisti preferiti, nonché maestri, oltre a Millet, ci fu Delacroix e anche tanti esponenti dell’antica arte giapponese.
Il dipinto la Pietà è un “omaggio” che lui fece al pittore Eugene Delacroix. Il quadro è intitolato infatti Pietà (dopo Delacroix) e la dipinse nel 1889.
Nella Pietà il volto di Gesù assume i suoi tratti e in una lettera, a suo fratello Theo, spiega cosa lo aveva attratto della Pietà di Delacroix: l’assenza di tristezza nella raffigurazione di Gesù morto tra le braccia della Madonna.
Infatti anche nella sua Pietà non c’è tristezza, ma un accenno a ciò che verrà.
Il primo elemento che salta all’occhio è il blu intenso delle vesti della Vergine, che con un gesto sta reggendo il corpo di suo Figlio e contemporaneamente sembra che voglia mostrarci il suo sacrificio. Gesù ha il volto inclinato e sereno, è appoggiato alla roccia, che è resa con delle pennellate dure, ma precise, quasi come se Vincent volesse segnare un forte distacco tra l’ambiente ed i due protagonisti, i quali, senza dubbio risaltano rispetto a tutto ciò che li circonda.
La scena si svolge nella prima luce del giorno, un nuovo giorno, con un sole che inonda tutto con la sua luce dorata. Quella luce che fa presagire che ci sarà un nuovo giorno, quel sole che è rinascita, simbolo della Resurrezione che verrà.
#RijksmuseumAmsterdam
ARCA DI NOE’, Luini Aurelio
Le gocciole di arte di oggi si intitolano “SOLO CHE SI VEDONO I DUE LEOCORNI” dedicate a quei due leocorni… sì, sì, proprio a loro… ve li ricordate?
“Ci son due coccodrilli
ed un orango tango,
due piccoli serpenti
un’aquila reale,
il gatto, il topo, l’elefante:
non manca più nessuno;
solo non si vedono i due leocorni.”
San Maurizio al Monastero Maggiore è una delle più belle chiese di Milano, è “la Cappella Sistina di Milano”, per qualcuno, della Lombardia intera, ma nasconde un mistero: cosa ci fanno due leocorni a bordo dell’Arca di Noè proprio in questa meravigliosa chiesa?
La storia dell’arca di Noè non è cantata, bensì affrescata da Aurelio Luini, figlio del pittore-star del Cinquecento Bernardino, che dipinge la storia di Noè che ha preparato l’arca per salvare coppie di animali e la sua famiglia dal Diluvio Universale. E Aurelio dipingendo l’arca non dimentica certamente i due leocorni… quindi sono scomparsi o no? Scopriamo questo mistero… osservate bene il dipinto e provate a fare l’elenco degli animali che salgono sull’arca, i leocorni sono al terzo posto, ma allora sono scomparsi o no?
Si presuppone che chi li ha dipinti l’abbia fatto a ragion veduta. Quindi nella versione di Luini, Noè non ha li ha dimenticati!
Per capire la questione, bisogna fare un passo indietro nella storia.
Siamo nel cuore della Milano romana, in quello che oggi è Corso Magenta. Qui sin dall’età carolingia è documentato un monastero femminile benedettino. E’ San Maurizio, per questo “al Monastero Maggiore”: dall’esterno anonimo, con un interno preziosissimo. Venne eretto riutilizzando in parte alcuni edifici romani di cui oggi restano una torre poligonale proveniente dalle antiche mura di Massimiano, e un’altra quadrata, che in origine faceva parte del circo romano. L’interno è diviso in due aule di uguali dimensioni: una destinata alla chiesa per i fedeli, l’altra al coro delle monache.
Nel XVI secolo la potente famiglia dei Bentivoglio ne commissionò il rifacimento. Quattro delle loro figlie furono destinate al convento di San Maurizio, Alessandra ne fu badessa e a chi avrebbe mai potuto affidare uno dei suoi lavori di maggiore rappresentanza se non all’artista del momento, quello più gettonato dall’aristocrazia di allora, Bernardino Luini.
Al suo terzo figlio, Aurelio, toccò affrescare l’ultima cappella dedicata all’arca di Noè. La storia del patriarca biblico e del diluvio universale è qui raccontata in tre coloratissime immagini: l’entrata degli animali nell’arca, la Fine del Diluvio e l’Ebrezza di Noè.
Aurelio è molto attento ai particolari, dipinge scene vivaci e movimentate, e con molta attenzione ecco che dipinge i due leocorni…. Ma non erano spariti? Da dove ha saputo o sentito dire, da quale racconto ha tratto la notizia che si sarebbero salvati dal Diluvio Universale?
Noi cantiamo da sempre così la storia di Noè:
“E mentre continuava a salire il mare
e l’arca era lontana con tutti gli animali
Noé non pensò più a chi dimenticò:
da allora più nessuno vide i due leocorni”
Ma se dallo scoop di Luini, i due leocorni si sono salvati, allora resta il mistero: dove sono finiti i due leocorni!?!?
Oggi è la quinta settimana senza i vostri sorrisi e i vostri abbracci, le vostre vocine: Anto, Anto, Anto…e allora ho pensato di inviarvi questa scultura.
Un’opera dedicata agli abbracci, perché in questi giorni ne sentiamo tutti un gran bisogno. A me mancano tanto i vostri abbracci e i vostri sorrisi!
Mi chiamo Francesco Evviva Ribelle, e di cognome Rosso. Non stupitevi più di tanto per questo strano nome, perché mio papà era un tale chiamato Medardo, uno dei più incredibili artisti di fine Ottocento.
È un’immagine insolita e realizzata con un materiale difficile da riconoscere … avete capito di che materiale si tratta?
È cioccolato bianco, è formaggio o maionese?
Si tratta di cera! Medardo infatti era un grande sperimentatore, e decise di avvalersi di un materiale che potesse permettergli di raggiungere il suo scopo: “far dimenticare la materia” e trasmettere l’idea della magica fusione fra due corpi durante un caldo abbraccio.
La vedete ora la mano della mia mamma che tiene la mia testa portandola a sé per darmi un bacio?
L’opera è conservata in una lunga sala della Galleria d’Arte Moderna di Milano, dove troviamo altri fantastici soggetti in cera o in bronzo, come un giovane garzone e una vecchia signora che ridono sguaiatamente.
Medardo era così: amava raccontare la verità che lo circondava, fatta di gente comune incontrata per strada.
VIA CRUCIS BIANCA, Lucio Fontana (L’immagine della XIV stazione purtroppo non è disponibile)
Questo venerdì di Quaresima vorrei farvi conoscere una meravigliosa Via Crucis conservata al museo diocesano di Milano.
Si tratta della Via Crucis Bianca di Lucio Fontana, sì quel Lucio di cui a qualcuno di voi ho già parlato, l’artista che fa buchi e tagli nelle tele! Il padre dello spazialismo: che cos’è? Prova a pensare alla parola… Fa pensare allo spazio, inteso come cosmo. Ecco siamo nel 1947 e Lucio vuole realizzare un’opera d’arte che va al di là della stessa opera, un’opera aperta, che entra a far parte dello spazio del destinatario. Vuole fare opere che tengano conto del movimento, del tempo e dello spazio.
Perché fare buchi e tagli? Prova anche tu a guardare da una fessura: al di là c’è un mondo che non ti eri immaginato e che forse non avresti scoperto se non ti fosse venuta la curiosità di “ficcare il naso” in quell’apertura… Fontana ci porta a fare la stessa cosa. Vuole ricordarci che quello che vediamo e percepiamo della realtà non è tutta la realtà, c’è altro… ci dice di andare oltre.
Andare oltre per Lucio è anche pensare a Gesù mentre saliva il Calvario, a cosa c’è dopo quella fatica e quel sacrificio doloroso che Gesù fa per noi.
Per farci cogliere il sacrificio e il dolore di Gesù, Lucio realizza nel 1955-56 le stazioni che rappresentano le scene della condanna di Gesù e dell’ascesa al Calvario sintetizzate in pochi elementi.
Le figure sono isolate su una superficie di fondo liscia, lucida e bianca brevemente incisa da tagli netti e con tocchi di colore rosso.
Dalle sagome ottagonali della Via Crucis emergono segni che incidono, graffiandolo, lo spazio, conferendo alle immagini un’intensa drammaticità. Frantumando la superficie, Fontana introduce una tensione verso l’infinito, il mistero.
Tra tutte le formelle ce n’è una che racconta di quando Gesù, mentre saliva il Calvario, ha incontrato una donna di nome Veronica. Lei gli ha asciugato il volto con un velo e miracolosamente l’immagine del viso di Cristo è rimasta impressa sulla tela, come se fosse una fotografia. Prova a cercare in quale formella si narra questo episodio?
E’ facile riconoscerla dal particolare del velo della Veronica.
Oggi è la festa del papà e io ho pensato al mio amico Guido Reni, un pittore bolognese del 1600. Al Museo Diocesano di Milano è conservato un suo bellissimo dipinto dedicato a San Giuseppe.
Tra le colline, al crepuscolo, San Giuseppe con barba e capelli bianchi e un ampio mantello arancione tiene fra le braccia il suo Bambino.
Guido raffigura San Giuseppe che guarda Gesù e si nota immediatamente quanto siano uniti dallo scambio di uno sguardo pieno d’amore, dolcissimo.
Siamo abituati a vedere San Giuseppe nelle Natività che resta lì immobile e solitamente è Maria che tiene in braccio Gesù, mentre lui assiste alla scena. Da figura secondaria e silenziosa, San Giuseppe passa poi, nel 1500, a diventare il soggetto principale di alcuni dipinti, in particolar modo in alcune scene come la Fuga in Egitto… Ma… anche in quest’opera c’è un riferimento alla fuga in Egitto!
Guarda bene, con attenzione, e trova il particolare che ce lo fa capire.
Lo hai trovato?
“…O mia bela Madunina
che te brillet de lontan,
tuta d’ora e piscinina,
ti te dominet Milan…”
Tutti noi l’abbiamo canticchiata almeno una volta, ma il nostro arcivescovo, Mario Delpini, l’altro giorno ha iniziato così una preghiera speciale di intercessione alla Madonnina, si è recato sulle terrazze del Duomo e qui ha recitato questa preghiera: “O mia bela Madunina che te dominet Milan”, conforta coloro che più soffrono nei nostri ospedali e nelle nostre case; sostieni la fatica dei tuoi figli…, aiutaci…”
Il Duomo lo si scopre da tanti punti della città, ma soprattutto si vede La Madonnina, tutta d’oro che brilla sulla guglia maggiore.
Lo sapete che il Duomo è il cuore del centro di Milano, che dal 1386 è la chiesa più importante e più grande della città. Voluta dal popolo, alla sua costruzione parteciparono tutti i milanesi, offrendo denaro, lavoro e beni. La cattedrale simboleggiava il rapporto di tutta una città con Dio. Un rapporto mediato dall’Amore di Maria, a cui molte cattedrali erano dedicate. Il nostro Duomo è dedicato alla Natività di Maria. A lei sono dedicate tante opere d’arte all’interno del Duomo, ma la più conosciuta è la scultura che svetta sulla guglia più alta. La Madonnina guida un popolo di marmo che dà gloria a Dio, insieme a tutta la realtà creata: piante, fiori, frutta, animali entrano in questo canto di lode che si leva al cielo.
Ma sapete quanto è grande? Sembra “piscinina”, perché sta lassù, a 108,50 metri, e domina la città; ma la statua, in rame sbalzato e dorato, è alta 4,16 metri. Si compone di 33 lastre di rame che la rivestono e hanno un peso complessivo 399,2 Kg, mentre sono 6.750 i fogli d’oro zecchino che sono stati utilizzati nell’ultima doratura.
Per molto tempo a Milano non è stato costruito nulla di più alto della Madonnina. Dovendo guardare e proteggere la città dall’alto, non sembrava giusto oscurarne la vista. Questo almeno fino al 1954, quando per la prima volta la Torre Breda infranse questa legge. In ogni caso, l’edificio più alto di Milano ha sempre “onorato” la Madonnina. Quando ad esempio fu ultimato il Pirellone, sul tetto dell’edificio, a 127 metri, venne posta una copia della statua. Vi è rimasta fino al 2010, quando è stata spostata sul Palazzo Lombardia, sede della Regione, alto 161 metri. E ancora, il 22 novembre del 2015, un’altra copia è stata collocata sul tetto della Torre Isozaki, su quella che attualmente è la costruzione (in termini di piani abitabili) più alta della città: in termini assoluti il primato spetta all’Unicredit Tower, grazie all’antenna posta sul tetto.
Una copia della Madonnina in scala 1:1 fu realizzata in occasione di Expo 2015, con lo scopo di rendere possibile ciò che non era mai stato tale: consentire ai milanesi e ai turisti di vedere da vicino la statua simbolo della città, fin dal 1774 amata solo da lontano, dalla guglia maggiore della cattedrale. Nel 2018 su decisione del Comitato Scientifico della Veneranda Fabbrica, trova la sua collocazione definitiva al Museo del Duomo, dopo essere stata installata presso la sede della Regione Lombardia a Milano prima e nel retro coro del Duomo poi. Oggi, La Madonnina si trova all’esterno del Museo, nella corte di San Gottardo, così ci è più vicina e chi visita Milano, porterà sempre con sé la sua luce!
L’ULTIMA CENA, Leonardo da Vinci 1494 – 1497
In questo momento un po’ strano, che sembra vacanza, non dimentichiamoci che è iniziata la Quaresima, se fossi a scuola con voi, uno dei più bei dipinti che vi mostrerei è l’Ultima Cena di Leonardo da Vinci. E magari vi porterei anche a guardarla dal vero a Milano!
Leonardo la dipinse tra il 1494 e il 1497, allora lavorava a Milano per il duca Ludovico il Moro. Il duca chiese a Leonardo di dipingere un affresco sulla parete del refettorio della Chiesa di Santa Maria delle Grazie, la Chiesa che Ludovico voleva diventasse il mausoleo della sua famiglia.
La parete su cui Leonardo ha dipinto è molto grande: è lunga circa 9 metri e alta 4,60.
Leonardo, che era uno sperimentatore, non volle usare la tecnica dell’affresco e decise di dipingere a tempera. Come dice la parola a-fresco, questa tecnica prevede che si dipinga sull’intonaco fresco così, asciugando, intonaco e colore diventano una cosa sola e ciò garantisce la tenuta del dipinto. Invece Leonardo dipinse sul muro asciutto, come fosse una tela, così in poco tempo l’opera iniziò a rovinarsi. Ci è voluto un grande restauro per ridarci buona parte del capolavoro di Leonardo, ma fortunatamente possiamo ancora ammirarlo!
Leonardo immagina l’Ultima Cena in una grande stanza, come fosse un proseguimento del refettorio; l’ora è quella del crepuscolo, come si vede dal paesaggio che si intravede dalla finestra sullo sfondo. Ma la luce che illumina la tavola e gli apostoli arriva da sinistra, cioè dalle stesse finestre del refettorio, come a ricordare che quella cena è lì per noi, in uno spazio in cui vivevano i monaci e che vivono coloro che entrano nel refettorio.
Leonardo decide di raffigurare un momento preciso dell’Ultima Cena, che non è la benedizione del Pane e del Vino, come avevano fatto tanti artisti prima di lui. Leonardo decide di mettere tutti gli apostoli intorno a Gesù e di fronte allo spettatore e immortalare il momento in cui Gesù dice: “In verità vi dico: uno di voi mi tradirà”. A quelle parole si crea lo sgomento: gli apostoli si uniscono a gruppetti di tre e iniziano a parlottare, a gesticolare.
Leonardo mette in scena un momento che parla della tristezza, della rabbia, dell’incredulità che gli apostoli hanno provato alle parole pronunciate da Gesù e ce le fa vivere con la sua estrema bravura a dipingere i “moti dell’animo” attraverso le espressioni dei volti e il gesticolare delle mani.
Gesù è al centro ed è tranquillo, un po’ triste, ma Lui sa bene che è venuto per noi e che la sua morte e resurrezione ci salveranno; indica il pane e il vino, il suo corpo e il suo sangue e la sua posizione con le braccia ricorda quella della crocefissione. Si dice che, prima che distruggessero il muro sottostante, ci fossero dipinti anche i piedi di Gesù incrociati, proprio come sulla croce.
C’è un solo apostolo che non si scompone e guarda gli altri chiedendosi perché si agitino in quel modo… ha barba, capelli e carnagione scura…
Lo avete trovato?
Indovinate un po’ chi è?
RITRATTO DI ALESSANDRO MANZONI, Hayez Francesco 1841
AUTORITRATTO, Hayez Francesco 1848
Lui si chiama Francesco. È stato uno dei più importanti pittori dell’Ottocento, e i suoi ritratti ci raccontano una panoramica della società del tempo.
Ha ritratto Alessandro Manzoni e il famosissimo Il Bacio.
Potete ammirare il suo meraviglioso autoritratto e Il Bacio nella Pinacoteca di Brera.
A proposito, perché non vi cimentate in un bel autoritratto? Prendete uno specchio, guardatevi con attenzione e realizzate il vostro ritratto e perché no dopo anche quello della vostra famiglia e create una bella cornice con cartoncini e materiali vari, come ad esempio dei bei bottoni dorati.
PRIME LETTURE, Nomellini Plinio 1906
Facciamo i compiti in giardino?
Visto che non possiamo andare a scuola, cerchiamo il bello della situazione…
Impariamo all’aperto, magari con la mamma che sta un po’ con noi!!!
Con questo pensiero mi è tornato in mente un bellissimo dipinto fatto da un pittore di nome Plinio, che in questo dipinto ci racconta di un tempo in cui per fare lezione bastava un semplice abecedario. Era una giornata di sole del 1906, e sotto un pergolato una mamma paziente impartiva le prime nozioni di lettura.
Si tratta di un’opera molto grande, con i colori caldi che catturano lo sguardo dei visitatori della Galleria d’Arte Moderna di Milano, in una piccola sala del piano nobile ricca di opere dedicate ai bambini, è una stanza piena di sorrisi belli come i vostri. Questo meraviglioso dipinto è il mio pensiero di oggi a tutti i “miei” bambini e ragazzi a casa da scuola e alle prese con un po’ di compiti e che un po’ sentono la nostalgia delle maestre!!!!
CI MANCATE!!!
Metti una domenica uggiosa, in Brianza, con le strade bagnate dalla pioggia e due chierichetti di ritorno dalla Messa celebrata ad una sagra di paese.
Nel viottolo, percorso in lontananza dal gruppo più compatto degli altri chierichetti, si fa loro incontro sotto una pioggia battente un chiassoso gruppo di oche… ed ecco che due di loro non possono che mettersi a giocare con le oche starnazzanti.
Lui si chiamava Mosè, pittore monzese attivo nella seconda metà dell’Ottocento.
Scopri le differenze e attenzione alle oche!!!
Queste opere si trovano alle Gallerie d’Italia di Piazza Scala una seconda versione anche alla Galleria d’Arte Moderna.
MORBIDEZZE DI PRIMAVERA, Giacomo Balla, 1917
Avete mai guardato il cielo attraverso le foglie appena nate di primavera? Magari mosse dal vento?
In questi giorni così luminosi e limpidi che annunciano la primavera mi è tornato in mente il mio amico FuturBalla, Giacomo Balla, il papà di Luce (ve la ricordate?) che pur preso dalla velocità, dal movimento, dalla frenesia… non riesce a non restare stupito di fronte alla meraviglia della natura che rinasce e a quel cielo così azzurro a quella luce… ed ecco linee curve verdi che si intrecciano all’azzurro del cielo e al bianco soffice delle nuvole… morbidezze di primavera.
Vi lascio un compito ammirate i primi fiori di primavera e fatene disegni, magari usate stoffe, nastri, cartoncini per raffigurarli e pensate a rappresentarli da un punto di vista insolito… come ha fatto Giacomo.
Sembra di sentire le vocine di questi bambini, raffigurati da Giuseppe Pellizza da Volpedo.
Finalmente possono stare in un bel prato a giocare. Un gruppo di bambini e bambine al centro di un prato illuminato dal sole. Si tengono per mano e stanno compiendo un girotondo. Le bambine indossano vesti leggere e dai colori sgargianti. Al centro del dipinto un grande albero dai rami contorti. Inoltre, altri alberi in fiore circondano il loro gioco. In primo piano, siedono due di loro, assorti in un altro gioco. Il sole filtra tra le foglie e illumina a tratti l’erba in primo piano. Sul fondo, invece, il prato è in piena luce. L’orizzonte è chiuso dalle colline che si alzano verso il cielo nel quale corrono piccole nubi bianche. La scena è ambientata nel prato verde, rigoglioso, luminoso, vicino casa di Giuseppe, che ferma con tanti fili di colore quella bella luce di primavera, con i suoi colori tenui e luminosi, in un girotondo … e sì, perché anche la cornice del quadro è un cerchio dorato!
Lei è Luce! Mi direte: lei chi? Ci sono tanti rettangolini colorati! Ma se osserverete con attenzione, scoprirete la sagoma di Luce. Ha solo otto anni e come tutte le bambine e i bambini della sua età è sempre in movimento. Caso vuole che Giacomo, il papà di Luce, amasse il movimento più di ogni altra cosa e fosse capace di raccontarlo persino in pittura. Ecco quindi Luce che corre sul balcone di casa, e uno, tre, dieci stivaletti neri in movimento! Parliamo di Futurismo, ovviamente, e l’opera è esposta al Museo del Novecento di Milano.
Loro si chiamano Centa e Maria, e il titolo del dipinto che le rappresenta calza a pennello con questo lunedì mattina: “Chiusi fuori di scuola”. Si trovano in una piccola sala all’ultimo piano della Pinacoteca Ambrosiana, assieme ad altri meravigliosi ritratti e dipinti di fine Ottocento. Il Museo a breve riaprirà e spero di portarvi presto, ma le scuole resteranno chiuse per una settimana.
La piccola Centa non sembra annoiata, ma Maria sembra annoiarsi. Come trascorrerete le vostre giornate bambini? Un suggerimento: provate a guardare un bel libro d’arte, prendete fogli, pastelli e materiale da riciclo e, perchè no, allestite un piccolo museo in casa.